Un aggettivo e un sostantivo che insieme suonano più rivoluzionari di mille neologismi: “buon senso”.
Ovvero la capacità, sempre più rara, di cogliere ciò che è appropriato in ogni contesto: nella vita, nel business, nella gestione della ‘res publica’, nella comunicazione in generale.
I greci lo chiamavano ‘prepon’,
Platone e Aristotele usavano il termine per indicare la qualità che fa apparire un gesto, un discorso, un comportamento come perfettamente collocato nel suo contesto.
È un concetto che va oltre la logica: tocca l’etica, l’estetica, la retorica.
I latini lo definivano ‘decorum’, una delle virtù cardinali della retorica romana, centrale nel pensiero di Cicerone, che la definisce l’armonia tra contenuto, stile e situazione.
Il ‘buon senso’ è un tipo di intelligenza, per la precisione si tratta di ‘intelligenza del contesto’.
In un mondo che parla troppo e ascolta poco, saper scegliere il tono giusto, il tempo giusto, le parole giuste per le persone giuste, è la vera arte del comunicare.
Non esiste un messaggio universale che valga sempre.
Esiste la coerenza tra ciò che dici, chi sei o che ruolo ricopri e chi hai davanti.
Ogni messaggio efficace nasce dal rispetto per il contesto, per l’interlocutore e per il momento.
Chi è dotato di intelligenza del contesto ha una sensibilità allenata.
È come se avesse un orecchio attento a cogliere tutto ciò che è fuori posto:
le parole forzate, le battute fuori tempo, le incoerenze nel discorso, le affermazioni che grattano contro il giusto momento.
Il buon senso non si impone.
Non si ostenta e non fa rumore.
Ma quando manca… si sente.
Eccome se si sente.